Si riducono le sanzioni per mancato versamento di contributi previdenziali

In sede di conversione del Decreto Legge PNRR, è stata introdotta una norma che riduce le sanzioni civili in caso di omissione ed evasione contributiva.

Sino ad oggi, la normativa prevedeva le seguenti sanzioni:

  • in caso di omissione contributiva – cioè di mancato o ritardato pagamento di contributi o premi il cui ammontare è rilevabile dalle denunce o registrazioni obbligatorie – una sanzione civile pari al tasso ufficiale di riferimento (TUR) aumentato di 5,5 punti percentuali e con un massimo del 40% dell’importo dei contributi o premi non corrisposti;
  • in caso di evasione contributiva – cioè di contributi dovuti a seguito di registrazioni o denunce obbligatori omesse – una sanzione civile pari al 30% con un massimo del 60% dell’importo dei contributi o premi non corrisposti;

Nel caso in cui si sia omesso il versamento dei contributi, infatti, e si provveda al pagamento del dovuto entro 120 giorni e in un’unica soluzione, l’unica maggiorazione applicabile sarà quella del tasso ufficiale di riferimento (TUR) pari al 4,25%, mentre non si applicherà più l’ulteriore maggiorazione di 5,5 punti. La sanzione passa quindi dal 9,75% al 4,5%.

Anche in caso di evasione contributiva vi è una riduzione delle sanzioni. In caso di autodenuncia da parte del contribuente – ovviamente prima di contestazione o richieste da parte degli enti impositori - e di pagamento del dovuto entro 30 giorni dalla stessa denuncia, la sanzione civile passa dal 30% in ragione d’anno, con un massimo del 60% dei contributi dovuti, al tasso ufficiale di riferimento (TUR) maggiorato di 5,5 punti percentuali. Ma la novità riguarda l’introduzione della previsione per cui il tasso ufficiale di riferimento è maggiorato di 7,5 punti, se il versamento in unica soluzione dei contributi o premi è effettuato entro novanta giorni dalla denuncia e il fatto che, in caso di pagamento in forma rateale, l'applicazione della sanzione agevolata è subordinata al versamento della prima rata.

Infine, qualora sia l’ente impositore – d’ufficio o a seguito di verifiche ispettive – a contestare il dovuto, se il pagamento avviene entro 30 giorni dalla notifica della contestazione, la sanzione civile viene ridotta del 50%.

Pace contributiva: possibile il riscatto di periodi scoperti

Diventa operativa, con la circolare numero 69/2024 dell’INPS, la pace contributiva introdotta dalla Legge di Bilancio e che consente il riscatto di periodi non coperti da contribuzione.

Lo strumento è utilizzabile nel periodo 2024-2025 e si rivolge agli iscritti:

  • all’assicurazione obbligatoria dei lavoratori dipendenti (Ago)
  • alla gestione separata INPS
  • alle gestioni dei lavoratori autonomi e alle altre gestioni INPS

purché non si sia già titolari di pensione e non si abbia alcuna anzianità contributiva prima del 1° gennaio 1996.

I periodi che è possibile riscattare devono essere interamente scoperti da contribuzione e durante detti periodi non deve essere stata svolta alcuna attività lavorativa.

Il riscatto può riguardare un massimo di cinque anni, anche non continuativi, pagando i rispettivi contributi calcolati utilizzando il metodo percentuale. In particolare verranno prese a riferimento le retribuzioni percepite nelle ultime 52 settimane precedenti l’operazione, moltiplicate per l’aliquota contributiva della gestione assicurativa presso la quale si esercita il riscatto. Le somme così dovute potranno essere rateizzate in un massimo di 120 rate mensili senza interessi. Le somme versate saranno deducibili dal reddito complessivo.

L’anzianità contributiva così acquisita sarà utile sia ai fini del diritto che ai fini dell’importo della pensione spettante.

La domanda di pace contributiva andrà presentata telematicamente sul sito www.inps.it.

Soci lavoratori nelle società di capitali: la Cassazione blocca l’INPS.

Con tre sentenze sfavorevoli all’INPS, la Cassazione è intervenuta a bloccare l’Istituto nei casi in cui questi richieda al socio di società di capitali, anche senza alcun apporto lavorativo.

La tesi dell’INPS, che riteneva assoggettabile a contribuzione anche i redditi derivanti da capitale e dividendi percepiti dai soci, è stata bollata come infondata dalla Cassazione la quale rileva come la base imponibile su cui calcolare i contributi va limitata ai soli redditi d’impresa. I redditi percepiti dai soci non svolgenti attività lavorativa all’interno della società vanno invece qualificati come redditi di capitale e non vanno quindi ricompresi nella base imponibile. L’obbligo contributivo e assicurativo scaturisce esclusivamente se il socio partecipa al lavoro con abitualità e prevalenza.

Amministratore ma anche dipendente di una medesima società: si esprime l’INPS

Amministratore ma anche dipendente di una medesima società: l’eterno dilemma previdenziale è stato oggetto recentemente di un importante e parzialmente innovativo chiarimento.

Già la Cassazione aveva espresso il principio in base al quale “l’essere organo di una persona giuridica di per sé non osta alla possibilità di configurare tra la persona giuridica stessa ed il suddetto organo un rapporto di lavoro subordinato, quando in tale rapporto sussistano le caratteristiche dell’assoggettamento, nonostante la carica sociale, al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione dell’ente”.

Ne consegue che:

  • la carica di presidente non è di per sé incompatibile con lo status di lavoratore subordinato poiché anche il presidente di società, al pari di qualsiasi membro del consiglio di amministrazione, può essere soggetto alle direttive, alle decisioni ed al controllo dell’organo collegiale;
  • la carica di amministratore unico della società, invece, è incompatibile con la qualità di lavoratore dipendente, dal momento che egli è detentore da solo del potere decisionale, di controllo, di comando e di disciplina dell’ente sociale;
  • l’amministratore delegato può o meno ricoprire al contempo il ruolo di dipendente a seconda della portata della delega. Difatti, se l’amministratore è munito di delega generale con facoltà di agire senza il consenso del consiglio di amministrazione, deve ritenersi a lui esclusa la possibilità di intrattenere un valido rapporto di lavoro subordinato con la società. Diversamente, l’attribuzione all’amministratore del solo potere di rappresentanza ovvero di specifiche e limitate deleghe non è ostativo, in linea generale, all’instaurazione di genuini rapporti di lavoro subordinato.

Nella disamina dello scorso 17 settembre sull’argomento in questione, l’INPS afferma che per l’ammissibilità del doppio ruolo amministratore-dipendente, assumono rilevanza “i rapporti intercorrenti fra l’organo delegato e il consiglio di amministrazione, la pluralità ed il numero degli amministratori delegati e la facoltà di agire congiuntamente o disgiuntamente, oltre – naturalmente – alla sussistenza degli elementi caratterizzanti il vincolo di subordinazione”.

Inoltre, il documento analizza la compatibilità tra lo status di socio e il ruolo di dipendente, affermando che il socio unico non può essere al contempo dipendente della società poiché in tal caso viene di fatto a mancare la soggezione del soggetto alle direttive dell’organo societario, detenendo egli la “sovranità” della società.

In riferimento, invece, alla figura del socio di società di capitali che assommi in capo a sé anche l’incarico di amministratore, non può escludersi a priori la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato. In tal caso, infatti, vanno valutate disgiuntamente, caso per caso, “sia la condizione di possessore di parte del capitale sociale sia l’incarico gestorio”.

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